La lettera della Merla

Estratto del romanzo “LE NOTTI ALLA MASSERIA VERLA” disponibile in ebook e formato paperback su Amazon, Lulu e Smashwords.

1- LA LETTERA DELLA MERLA

Quando spalancò il cancello fece di tutto per convincersi che il lamento metallico dei cardini non fosse reale.

Solo il rigurgito sonoro di un istante sepolto nella memoria.

Poi in un lampo ricordò.

Quel raglio apparteneva alle sere d’inverno in cui andava a trovare i nonni. Sere di almeno quaranta anni prima. Era parecchio che non tornava a quel periodo così confuso della vita. Nell’intervallo di silenzio che separò l’apertura dalla chiusura sentì sprofondare distese di apprensione. Sarebbe stato più naturale provare quell’ansia se fosse stato ancora un glabro nanetto che attraverso il cancello fissava tremando il bagliore polveroso delle finestre. Anche se in effetti era proprio così che s’era sentito, quando nella cassetta della posta aveva trovato la lettera scritta da suo fratello il giorno prima che lo trovassero senza pulsazioni, sdraiato su una sedia a dondolo, le spalle rivolte ad uno scaffale da cui erano cadute pile di libri contabili.

“A qualcuno la vecchia masseria Verla potrebbe ancora offire riparo per le lunghe notti della Merla”.

L’aveva scritto al centro, senza firmare, la calligrafia sinuosa di lord inglese che aveva imparato a riprodurre copiandola da certe lettere di un parente di Bristol. Dietro al biglietto, incollato con una goccia di ceralacca, la chiave di ferro della masseria.

Illustrazione di AFAN Alessandro Fantini tratta dal libro.

Nessuna formula di commiato. Nessuna vaga allusione alle ragioni di quel messaggio e quella consegna. Il resto del foglio color crema era vuoto, ad eccezione del margine orlato da un bordino nero. La busta riportava solo l’iniziale del suo nome, segno che suo fratello o un suo incaricato era passato ad imbucarla nottetempo o al primo mattino.

Quando aveva selezionato il suo numero sul cellulare, dopo tre squilli a vuoto, dall’altra parte gli aveva risposto la voce incolore di un agente che, senza tanti preamboli, gli comunicava il decesso del fratello.

“Come sarebbe a dire che è morto?”

“Ci ha chiamato la vicina. Dice di aver sentito un rumore fortissimo un’ora fa e di non aver ricevuto risposta quando ha suonato alla porta. Siamo appena entrati nell’appartamento. Per ora non possiamo dirle altro. Mi spiace. È ancora in corso il sopralluogo medico-legale. Questo telefono e il suo contenuto verranno acquisiti agli atti”.

Non aveva aggiunto altro, né lui aveva sentito di avere altro da dire o chiedere. Men che meno di menzionare quella lettera. Né allora né dopo. Non parlava e non vedeva suo fratello da dieci anni. Entrambi avevano diradato i rapporti dopo il fallimento dell’impresa di famiglia e del matrimonio di Livio. In segreto, senza confessarselo in faccia, ciascuno addossava all’altro la colpa della propria rovina e leggeva nel reciproco mutismo la prova a conferma di questa tesi. Essendo poi diventati entrambi piuttosto insofferenti alla vita sociale (suo fratello amava star chiuso in studio a creare giochi di società e cruciverba da spedire ai settimanali di enigmistica, lui detestava i luoghi affollati e il sovrapporsi delle voci umane) a furia d’aspettare che fosse l’altro il primo a rifarsi vivo, avevano finito col ridurre a zero anche le probabilità d’incontrarsi per caso o di trovare un amico in comune disposto a far da paciere.

Ancor più vano era aspettarsi che uno dei cugini tornasse dall’Inghilterra per verificare quanto rimanesse in Italia della famiglia Voldari. Non aveva mai approvato la scelta di Livio d’andarsene a vivere in uno di quei palazzoni dagli stretti balconi rugginosi circondati da parcheggi e giardinetti infestati d’erbacce. Alla fin fine continuava a preferire il suo attico mansardato con vista sul viale di Valpuria. A quell’altezza il rumore del traffico gli arrivava smorzato come il borbottio di una teiera. Aveva intuito però che una possibile spiegazione era il fatto che a linea d’aria quel complesso condominiale si trovasse ad un paio di chilometri dalla vecchia masseria in collina.

Inutile negare che in vita nonno Teodoro gli preferisse il fratello. In famiglia era l’unico a venir preso da una gaia frenesia quando i genitori annunciavano che sarebbero passati a far visita alla masseria. L’idea di trascorrere anche solo dieci minuti tra quelle mura imbevute dell’aroma di corteccia umida, di muschio e cuoio roridi di memorie ancestrali, accovacciato davanti alla rastrelliera del camino ad interpretare il bisbiglio del nonno che fumava la pipa col bocchino di ebano, per Livio era persino più galvanizzante della promessa d’andare ai grandi magazzini a comprare una nuova scatola di costruzioni. E per questo già da allora aveva cominciato a considerarlo un po’ “fuori fase”. Così come lo era stato senz’altro il nonno a nominarlo suo unico erede nel testamento.

Di tutto questo fece solo un vago accenno nel corso dell’interrogatorio di garanzia. Essendo l’unico parente reperibile, residente per di più nella stessa città, la convocazione presso gli organi inquirenti era stato un atto più ovvio che dovuto. Ma le indagini preliminari si chiusero in fretta così come erano iniziate, eclissate dal punto interrogativo che aveva preso il posto delle tesi di sospetto avvelenamento e di infarto scartate dall’autopsia.

Diede un altro paio di strattoni. Un secco scricchiolio chiuse la sequenza di cigolii. A mezzo metro dal cancello batté la punta della scarpa contro una lastra di neve ghiacciata. Aveva l’aspetto di una pedana traslucida incastrata nella fanghiglia. Alzò lo sguardo verso la massa scura della masseria. Solo i riflessi cremisi del tramonto sulle finestre la distinguevano dal fienile laterale.

Faceva ancora in tempo a ripensarci.

Se in dieci anni non s’era mai voltato ad osservarla della stradina comunale che aggirava la collina, non era certo perché andasse di fretta. Non riusciva a spiegarsi perché si fosse precipitato in quel posto subito dopo che suo fratello era stato stipato nel loculo. Ma non poteva più negare che quel messaggio l’avesse turbato. Anzi, peggio, sconvolto. E che l’avesse allarmato il fatto di riceverlo in quel modo e con quella tempistica. Se non l’avesse ricevuta sapeva che non si sarebbe mai deciso a tornare di persona in quella masseria che aveva sempre considerato parte del regno arcano ed inaccessibile del fratello. L’estremità visibile che s’affacciava dalle profondità della sua indecifrabile psiche. Perché altrimenti avrebbe fatto in modo che pensasse a tutto l’agente immobiliare incaricato di venderla, se la perizia per il rilascio del certificato di agibilità fosse andata a buon fine.

Attraversò la corte coperta di pietrisco, mattonelle scheggiate e strisce di pozzanghere. I rami della grossa betulla si piegavano sulla veranda al di sopra del portone d’ingresso. Ogni tanto il vento ne agitava uno come la zampa di un enorme ragno.

“La mano bianca” pensò Piero, prima di portarsi sotto quei rami. Cosa significasse non riusciva più a ricordarlo. Da bambino doveva aver sentito una favola, o letto una leggenda riguardo ad una mano bianca che si materializzava al calare dell’oscurità vicino ad una betulla. Forse erano i rami stessi a formarne le dita.

Guardò a terra, ai lati della soglia di granito. Il ciocco di betulla con il taglio trasversale della scure era ancora poggiato ai piedi del lavabo di pietra. Tirò fuori la chiave dalla tasca del giaccone e la infilò con uno scrocchio acuto nella serratura.

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